Oggi le Alpi sono considerate tra gli ecosistemi più a rischio di fronte al cambiamento climatico.
IN NATURA ESISTE UN MODELLO DI INTERDIPENDENZA TRA LE VARIE PARTI CHE LA COMPONGONO. SE ANCHE UNA SOLA DI ESSE VIENE ALTERATA, INDIRETTAMENTE, NEL SISTEMA ECOLOGICO, VERRANNO ALTERATI ANCHE TUTTI I SUOI COLLEGAMENTI.
GIOVEDI 24 OTTOBRE 2024 2024 | DI CLAUDIO FRANZONI | TEMPO DI LETTURA: 5 MINUTI
*Questo articolo è uscito nel numero di Settembre-Ottobre 2024 di Terre & Culture nella rubrica TerraNews
La stesura di questo articolo appartiene al mio itinerario personale che ha avuto inizio 40 anni fa, quando incontrai da redattore /giornalista di Edagricole il prof. Celli, che mi aprì la porta verso la presa di coscienza dei significati di ambiente e di ecologia, che si sviluppò, negli anni, quale ricerca della reale comprensione della crisi ecologica globale. Intrapresi così uno studio più approfondito dei principi basilari del problema ecologico per comprenderne l’autentico significato nella nostra civiltà e nel suo rapporto con la Natura e, in definitiva, con noi stessi. Non penso di essere contraddetto se scrivo che l’edificio costruito dalla nostra società sia diventato molto complesso e non immune da un certo grado di arroganza, lontano dalla presa di consapevolezza che l’ecologia rappresenta lo studio dei principi ed elementi che presiedono al sano equilibrio dell’ambiente nel suo complesso.
In tutto questo tempo ho insistito nei miei scritti e nel mio libro Siamo al verde* nel ricordare che la visione ecologica delle cose è innanzitutto una visione d’insieme, in cui le varie componenti della Natura interagiscono in strutture che tendono verso l’equilibrio e durano, così, nel tempo. Questo per definizione. Il problema risiede nel fatto che non si può non considerare la Terra come un qualcosa di separato dalla civiltà umana. E se non ci dovessimo accorgere che la componente umana sta avendo un’influenza sempre maggiore sul complesso dei cicli della Natura e, inoltre, se non ci dovessimo rendere conto di essere come un albero o il vento, mai comprenderemo quanto stiamo mettendo a repentaglio l’equilibrio terrestre. Giunsi così alla conclusione che l’equilibrio ecologico della Terra dipendeva da qualcosa di più importante della nostra capacità di cercare di ristabilire un’armonia tra la ricerca di risorse, alla base della nostra civiltà, e la civiltà che aspiriamo a creare e a sostenere. Qualcosa che risiedeva, in ultima analisi, nel fatto di ripristinare un equilibrio all’interno di noi stessi tra ciò che siamo, che facciamo e che vogliamo diventare, ossia tra ciò che riteniamo essere il nostro vivere all’interno della Natura e le leggi della natura stessa.
Forse una parte della risposta risiede nella difficoltà di dare una risposta, mi dissi. Infatti, se la soluzione del problema ecologico/ambientale/energetico che le immagini di disastri sempre più frequenti ci propongono sembrano richiedere più sacrificio di quanto possiamo immaginare di sopportare, oppure, se anche il massimo sforzo da parte di qualsiasi individuo non riuscirebbe ad evitare la tragedia, siamo tentati di recidere il legame tra fare e non fare, diventando consapevoli della nostra inutilità e ininfluenza su tutto il processo. Quindi, dopo aver giudicato impossibile una reazione, a quel punto cominciamo a reagire non all’immagine che ci viene propinata, ma recidendo i legami nel nostro rapporto col mondo. La vista ci si appanna, guardiamo senza vedere; udiamo, ma ci rifiutiamo di sentire, fingendoci ignari della fragilità dei sistemi naturali della Terra.
Il rischio più pericoloso per l’ambiente, oggi, non è rappresentato solo dagli sconvolgimenti di cui siamo spettatori giornalmente, ma dal modo in cui li percepiamo, visto che la maggior parte della gente non accetta ancora di riconoscere la gravità di questa crisi. Questo è il punto cruciale: parlare, scrivere, riunirsi in consessi mondiali, ma alla fine scegliere di non scegliere. Invece, e la scienza sono decenni che ci sta avvertendo, dobbiamo agire subito, sulla base di ciò che conosciamo senza correre il pericolo di oltrepassare il punto di non ritorno, al di là del quale avremo perduto l’ultima buona opportunità di risolvere il problema prima che ci sfugga definitivamente dalle mani. Questa è la sfida. Consideriamo che in futuro possa verificarsi una vera catastrofe, che immaginiamo come uno strapiombo che ci attrae. Quel che ci attende è una corsa contro il tempo per evitare che la ripidezza dello strapiombo ci faccia aumentare la velocità della caduta. Ma quando questa discesa diviene ancora più ripida e l’attrazione esercitata dalla catastrofe si fa più forte, aumenta, e solo in quel momento, la nostra capacità di riconoscere la gravità della situazione. La sfida consiste, ora, nell’accelerare il diffuso riconoscimento dello stato delle cose e di organizzarci per frenare la caduta, prima che la velocità acquisita ci porti a superare il punto oltre il quale un collasso ecologico diviene inevitabile.
Sono d’accordo sulla necessità di distinguere tra ciò che fa ancora parte del dubbio e ciò che si sa a proposito della crisi; ma dobbiamo anche considerare che esiste un modello di interdipendenza tra le varie parti del sistema ecologico. Pertanto dovremo dedurne con grande sicurezza che, se alteriamo l’equilibrio ecologico anche solo in una parte di tutta la Terra, lo altereremo anche in altri modi collegati al primo. Questa interdipendenza viene illustrata da ciò che gli scienziati definiscono come i cicli di retroazione positiva, che amplificano l’intensità del cambiamento. Infatti, quasi ovunque all’interno del sistema ecologico, i meccanismi naturali tendono ad accelerare il ritmo dl cambiamento una volta che il cambiamento stesso si è messo in moto. Questa è una delle ragioni per cui il nostro attacco all’ambiente risulta così sconsiderato. Dato che stiamo interferendo con l’azione di sistemi complessi, le conseguenze della nostra interferenza non possono essere spiegate, né tanto meno previste, facendo ricorso alle regole relativamente semplici di causa ed effetto.
Un esempio ne è la Tundra ghiacciata della Siberia, relativamente all’aumento della temperatura a livello regionale e poi globale. Per alcuni questo è un fenomeno positivo perché con molta probabilità ciò avvierà la coltivazione di ampie zone agricole. Se si usasse un semplice modello lineare, calcolando cioè un unico effetto da un’unica causa, si potrebbe giungere alla conclusione che questo avvenimento rappresenti effettivamente un beneficio. Alcuni potrebbero anche concludere che questo beneficio sia in grado di controbilanciare qualsiasi conseguenza indesiderata causata dal riscaldamento globale. In effetti è con simili calcoli che alcuni tra gli scettici ad oltranza giungono alla conclusione che il riscaldamento globale potrebbe anche rivelarsi un bene.
Quando, però, osserviamo più da vicino gli effetti non lineari del disgelo della Tundra, si devono aggiungere al calcolo i numerosi rischi. Man mano che la Tundra si disgela si prevede che vengano prodotte e liberate nell’atmosfera enormi quantità di metano che, essendo venti volte più efficace come gas serra di una molecola di CO2, si verificherà un significativo incremento della concentrazione di gas serra e il riscaldamento globale ne verrà accelerato. Quindi il calcolo, anche se teorico, si fa da sé: una volta che una superficie sempre maggiore di Tundra disgela, si liberano nell’atmosfera quantità sempre maggiori di metano. Purtroppo questo problema non è solo meramente ipotetico. La Siberia è una delle regioni che sembrano riscaldarsi più rapidamente. La cosa è stata prevista da tutti i modelli costruiti sulla base del ciclo di retroazione positiva, che sottolinea gli effetti dello scioglimento delle nevi e del conseguente maggior assorbimento di raggi solari in superficie, con il risultato sopra accennato.
In tutti i casi di retroazione il fattore umano è decisivo per la salvaguardia dell’ambiente. Occorrerebbe, ora, un ciclo di retroazione positiva che si autoalimenti nella direzione giusta e acceleri il ritmo del cambiamento positivo di cui abbiamo bisogno. Ciò potrà avvenire solo se si adotterà una prospettiva globale e di ampio respiro e se accetteremo la responsabilità di affrontare il problema a viso aperto. Se poi sapremo anche sfruttare tutti gli elementi scientifici già dimostrati essere utili per combattere il problema del surriscaldamento globale, sapremo anche riconoscere meglio quale modello scegliere per affrontare i cambiamenti che si stanno verificando all’interno del sistema Terra.
*Siamo al verde. La sfida per l'ambiente (In.edit edizioni 2024)