Il garum
La storia di una rinomata salsa dell'antichità

MARTEDI 12 APRILE 2022 | DI LORENZO FRANZONI | TEMPO DI LETTURA: 7 MINUTI

 

 

Tracce importanti della gastronomia antica, greca e romana, sopravvissero a lungo nel Medioevo, e alcune di esse furono così longeve da giungere sino a noi, modellate nei secoli dalla cultura e dalle tradizioni con cui sono venute a contatto. Un esempio significativo è quello del garum, una rinomata salsa a base di pesce utilizzata nell’antichità per insaporire le vivande al posto del sale e ancora oggi presente in diverse varianti in giro per il mondo: basti pensare alla pasta d’acciughe, alla colatura di alici di Cetara, che segue lo stesso principio di macerazione di allora, al Nuoc Nam della cultura vietnamita, molto diffusa in oriente, al fesikh dell’Egitto o allo tsirosi greco.  Ma quali sono le sue origini e come si preparava?

Le origini | Il garum, così comune in epoca romana e ancora commercializzato nell’VIII secolo, in piena età longobarda, lungo le anse del Po dai mercanti di Comacchio, ha in realtà origini molto più antiche: deriverebbe infatti dal nome del pesce (garon o garos, un antenato probabilmente delle nostre alici), le cui interiora i greci e i fenici utilizzavano nella produzione dei condimenti. Questa salsa di origini orientali finì poi sulle tavole dei Romani durante le guerre puniche, quando iniziò ad essere utilizzata come condimento a varie pietanze a base di carne e verdure.

Sulla bocca di tutti | Prodotto diffusamente nei centri nordafricani di Cartagine o della Numidia, a partire dal secondo secolo a.C il garum ottenne un successo sempre crescente, anche se la sua rinomanza non di rado andava di pari passo alla cattiva nomea di intruglio putrido e puzzolente. Chi più chi meno, tutti ne parlano nel mondo romano: il gastronomo Apicio, grazie al quale conosciamo gran parte dei piatti della tradizione romana, nel suo De re coquinaria non si dilunga più di tanto sulla ricetta, giusto un accenno al suo utilizzo, tanto era conosciuto; lo ricorda lo storico Lampridio nella Vita di Eliogabalo, in cui narra di come, durante i banchetti di quest’eccentrico imperatore della dinastia dei Severi, non mancasse mai quella salsa di pesce in uso presso i sibariti nel VI secolo a.C, a base di olio e garon.

Come si preparava | Qualche notizia in più sulla sua preparazione ci viene da Gargilio Marziale. Scrittore latino del III secolo d.C., ci ha tramandato una delle versioni allora note di questa salsa: occorreva “una vasca ben impeciata” di una trentina di litri; si disponeva un primo strato compatto di erbe aromatiche tritate (come l’aneto, la menta, il timo, l’origano, finocchio e zafferano), poi uno strato di pesci piccoli e interi e pesci grandi tagliati a pezzetti, come tonni o sgombri. Infine si copriva il tutto con uno strato di sale grosso integrale, spesso due dita. Si procedeva a strati fino a chiudere l’orcio con un coperchio di legno o sughero. Dopo sette giorni bisognava iniziare a rimestare con un cucchiaio di legno o un bastone e ripetere l’operazione una volta al giorno per venti giorni. A questo punto, ottenuta da fermentazione una salsa più o meno densa, la si pressava, si raccoglieva il liquido (liquamen, secondo alcuni studiosi il garum stesso), lo si filtrava più di una volta e si otteneva così il famoso garum.  La giusta quantità di sale nella ricetta faceva davvero la differenza, come ci ricorda anche lo stesso Plinio il vecchio nella sua Naturalis Historia, “…un altro tipo di liquido pregiato, che chiamarono Garon, è fatto con intestini di pesce e altre parti che di norma si dovrebbero buttar via, macerati nel sale, sicchè quello non diventi la feccia di cose in putrefazione”, perché infatti, se non se ne metteva abbastanza, invece di una fermentazione si otteneva… una puzzolente putrefazione.

Diversi garum per diversi utilizzi | Come Plinio fa notare, c’erano diverse qualità di garum, indicate con lettere dipinte sulle anfore, a seconda dell’utilizzo di residui di pesci di vario tipo o piccoli pezzi di pesce scelto: dal gari flos, “il fiore del Garum”, ovvero il più puro, il primo liquido filtrato, al garum nigrum, che si vendeva in vasetti, dal garum excellens, ottenuto con alici e ventresche di tonno, al garum flos murae, ottenuto dalle murene. Il miglior garum di tutti, comunque, veniva prodotto a Cartagine, il cosiddetto garum Sociorum, dal gusto di sgombro. Ed era anche piuttosto caro visto che veniva venduto a più di mille sesterzi ogni 6 litri, quasi mille euro attuali. E’ Seneca in questo caso, in una lettera a Lucilio, a lanciare i suoi strali contro gli eccessi alimentari, infierendo contro il garum: “E quella salsa che viene dalle province – è il garum sociorum di cui parlava anche Plinio -, costosa poltiglia di pesci guasti, non credi che bruci le viscere col suo piccante marciume?”.

Baelo Claudia, città romana nell'odierna provincia di Cadice, in Spagna. Luogo adibito alla produzione del garum.

Indipendentemente dalla qualità del garum, dopo esser stata prodotta in stabilimenti specializzati nelle conserve ittiche, le cetariae (famose erano le fabbriche di garum della Campania come Pompei, di Leptis Magna e Clazomene), la salsa veniva immagazzinata  in specifiche anfore di ceramica, che venivano poi etichettate per indicarne il contenuto ed esser spedite in tutto l’impero, fino ad arrivare nelle cucine e insaporire un’ampia gamma di piatti e preparazioni più complesse quali sughi, condimenti e farciture: si avevano salse come l’oenogarum, prodotto tramite la riduzione a fuoco lento di una miscela di garum, spezie e vino; l’hydrogarum, un’emulsione di garum acqua e spezie usato per cuocere le polpette o l’apprezzato oxygarum, preparato con aceto forte e infusione di spezie, erbe aromatiche e un po’ d’olio.     

Il Garum oggi | Di certo oggi la cattiva fama di cui in parte aveva goduto il garum nei tempi antichi sembra essersi oscurata in favore di una molteplicità di eredi moderni che ne esaltano gli aromi, prima fra tutti la colatura di alici di Cetara, prodotto d’eccellenza della costiera amalfitana, dove già nel Medioevo i gruppi monastici presenti erano soliti conservare sotto sale le alici in botti di legno con le doghe scollate, per fare uscire i liquidi che le alici perdevano sotto l’azione del sale.